“A me me piace sta pe strada co la gente de strada”.
Diceva così, in un romanescho un po’ svogliato, la protagonista di Amore tossico (1983), Loredana Ferrara. Ma questa frase può racchiudere in se tutta la carriera artistica di un grande regista, Claudio Caligari, poco conosciuto, ma non per questo di minor talento. Un regista che amava stare tra la gente per descriverne e rappresentarne, l’anima e le contraddizioni. Un marziano che ha sbagliato pianeta. Un uomo capace come nelle più straordinarie opere pasoliniane di mostrare la realtà senza alcun velo. Nel suo cinema autentico e senza filtri, tutto, come un cazzotto in bocca, arriva in modo diretto e doloroso. I suoi film trapelano, la durezza della vita, la cruda e nuda realtà. Come se il cinema di Claudio Caligari volesse bypassare ogni categoria dell’intelletto, per arrivare a quella realtà, inconoscibile e indescrivibile, che Kant chiamò noumeno.
Caligari, sostenitore di quel cinéma vérité che superò la vecchia opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, attrasse e sorprese il pubblico per la prima volta nel lontano 1983 con il suo primo film: Amore Tossico. Qui il regista piemontese, ci terrorizza, mostrandoci la scioccante condizione di un gruppo di giovani tossicodipendenti, che trascinano le loro vite per le vie di un Ostia tetra e desolata. Il cui unico scopo è quello di racimolare qualche soldo per procurarsi la dose di eroina quotidiana. É un quadro di degrado e di emarginazione quello che il regista ci spiattella in faccia. E lo fa, come un cameriere che serve un piatto prima che lo chef metta il suo tocco, escludendo ogni abbellimento o stratagemma.
Amore Tossico è un boccone amaro da digerire, perché ci mette davanti a tutte le paure che un’intera generazione, quella degli anni ’70, conobbe coll’espandersi dell’eroina fra i giovani. Il film raggiunse l’apice di quello che nella storia del cinema venne chiamato neorealismo, ingaggiando nel cast, attori non professionisti e con un passato da tossicodipendenti. Alcuni, poco tempo dopo l’uscita del film, ricaddero nella loro dipendenza andando incontro nella realtà, così come nella finzione, ad una morte prematura e desolante.
Bisognò aspettare ben 15 anni per rivedere il regista di nuovo all’opera. Nel 1998 vide luce L’odore della notte, tratto dal romanzo di Dido Sacchettoni, Le notti di arancia meccanica edito sempre nel 1998. Anche qui Claudio Caligari ci immerge nell’acqua gelida degli anni ’70 e ’80. Dove dopo il cosiddetto boom economico, la società, con le sue divisioni e fragilità, ritorna in aperto conflitto. Da un lato la Roma dei quartieri alti, quella borghese e benestante, dall’altro quella della periferia, proletaria e violenta. A guidare il cast, un giovane e impacciato, Valerio Mastrandrea, che di li a poco sarebbe diventato uno dei volti più interessanti del cinema italiano. Il film narra la storia di un gruppo di rapinatori della periferia romana, che capeggiati da Remo, giovane poliziotto dall’animo contraddittorio, rapinano e svaligiano gli appartamenti di quella Roma borghese tanto odiata ed invidiata. Un noir a tratti feroci, dove la voce narrante, ci prende per mano e ci conduce nei meandri oscuri della psiche del personaggio.
L’inattività di Caligari, fu, in realtà, solo apparente. Non smise mai di scrivere, ma per ragioni che si scopre ora non solo commerciali, i suoi progetti, come un Gadda cinematografico, non si conclusero. Altri tre lustri. Siamo nell’anno appena passato. L’opera terza del regista, Non essere cattivo, esce nelle sale cinematografiche. Lo stile è quello di sempre, anche l’ambientazione è sempre la stessa, cambiano gli anni, qui sono quelli novanta, e le droghe, quelle sintetiche. La storia gira attorno alla vita di due ragazzi che vivono aggrappati alla loro viscerale amicizia e alla droga. La tensione tragica che pervade la pellicola si manifesta in tutta la sua complessità nel rapporto conflittuale fra le due anime dei protagonisti, quando uno dei due, dopo aver conosciuto una ragazza, cerca di ritrovare un’esistenza lontana dagli eccessi che condivideva con l’amico.
Qui Claudio Caligari porta alle estreme conseguenze quello che Pasolini mostrò in Accattone nel 1961. La narrazione cruda e drammatica del regista, palesa l’esistenza scomoda e sofferente dei protagonisti, figli illegittimi di una società assente e contraddittoria. Purtroppo Caligari, sofferente da tempo, non riuscì ad assistere alla presentazione del film. Morì subito dopo le riprese.
Valerio Mastrandea, produttore del film, nonché amico del regista fin dai tempi del suo secondo film, continuò scrupolosamente il suo lavoro sfiorando perfino la candidatura all’Oscar come migliore film straniero.
Ci resta l’immagine di quel vecchio signore serioso e quasi schivo, immerso in pensieri nascosti e illeggibili. L’ultimo degli intellettuali vecchia maniera.
“Muio come uno stronzo. E ho fatto solo due film”.
Così disse, mentre andavano in ospedale, Caligari a Valerio Mastrandrea. C’era una frase che mio padre mi ripeteva sempre quando, credevo di aver fatto un pessimo lavoro:
“non fare troppe cose tutte insieme, fanne poche, e quelle che fai, falle bene”.
Se fossi stato io in quella macchina, avrei risposto proprio così. In fondo, Claudio, le citazioni epiche, le amava.